lunedì 10 dicembre 2007
L'Europa corre, l'Italia arranca a fatica
Da oltre dieci anni l’Italia ha rallentato la sua corsa e non riesce a uscire da una situazione economica stagnante: il nostro Paese, infatti, è quasi il fanalino di coda dell’Eurozona e si contraddistingue per diversi record negativi, quali il debito pubblico più elevato (68,8 miliardi di euro di interessi sul debito nel 2006) e il costo dell’energia per uso domestico più caro di tutta l’Europa (15 cent/KwH).
Diversi sono i fattori che rendono l’economia italiana meno competitiva rispetto a quella degli altri Paesi: primo tra tutti, il problema delle rendite nei servizi e nelle professioni. L’Italia, infatti, è completamente paralizzata nei servizi, settore che corrisponde al 75% del PIL in ogni Paese moderno. Come sostiene Innocenzo Cipolletta, attuale presidente delle Ferrovie dello Stato ed ex direttore generale di Confindustria, il vero intralcio allo sviluppo dell’economia italiana è rappresentato proprio dal nostro sistema di servizi, protetti e quindi non ristrutturati: le corporazioni e gli ordini professionali ingessano lo sviluppo e non permettono la concorrenza. Il decreto Bersani dello scorso febbraio ha avuto proprio l’obiettivo di demolire il rigido corporativismo che caratterizza diverse categorie di professionisti in Italia: scarsa competizione, debole spinta all’innovazione, prezzi più alti per i consumatori e scadente qualità delle prestazioni sono i risultati di una politica basata su un’eccessiva regolamentazione nei servizi professionali. Con le cosiddette “lenzuolate”, il ministro per lo Sviluppo economico ha mirato a liberalizzare diversi sistemi, farmacie e taxi primi fra tutti.
Un altro fattore che penalizza l’economia italiana è rappresentato dagli scarsi investimenti nel futuro: il nostro Paese, infatti, si caratterizza per le gravi carenze nel sistema istruzione-formazione e per i bassissimi investimenti nella ricerca. Nel 2007 il nostro Paese ha investito solo l’1% del PIL nella ricerca, mentre in Europa la media degli investimenti in quest’ambito sale a quota 1,81%, negli Stati Uniti a 2,7% e in Giappone al 3,15%. Secondo un’analisi di Confindustria del marzo scorso, nel 2006 l’Italia ha investito solo 18 miliardi in ricerca, mentre gli Stati Uniti sedici volte tanto, ovvero 300 miliardi. L’abisso tra Italia e Stati Uniti è evidente anche nel numero dei ricercatori: nel nostro Paese sono solo 72mila, negli USA 300 miliardi.
Fonte: corso di Politica Economica (LUMSA), prof. Gentiloni, a.a. 2007/2008
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